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ARTICOLI CHE UTILIZZANO DOROTHY |
EMERGENZE: IL ‘LATO OSCURO’ DEL VOLO (di Giorgio Sabbioni, con contributo
finale di Angelo Garavaglia - aprile 2006)
Iniziamo in questo numero uno speciale dedicato a quella particolare
situazione del volo libero che è il lancio e la discesa con il paracadute
d’emergenza. Un aspetto del volo libero che molti dei piloti conoscono
fortunatamente solo “per sentito dire” ma che sarebbe opportuno conoscere
più a fondo.
PANIC STOP
Come ‘panic stop’ viene definita, quella reazione a situazioni d’emergenza
che porta gli automobilisti a frenare in modo sconsiderato, senza
utilizzare altre manovre più efficaci ad evitare l’eventuale impatto.
Si
tratta di un fenomeno comportamentale tipico, che in epoca pre-ABS è stato
concausa d’incidente per moltissimi malcapitati.
L’autista, davanti ad una potenziale o reale situazione di pericolo
schiaccia il freno fino al blocco dei pneumatici e conseguente pattinamento
e perdita di controllo del mezzo, quando, molto spesso, invece, la manovra
più efficace sarebbe il rilasciare il freno e correggere la traiettoria,
oppure scalare le marce o utilizzare il solo freno a mano ecc…
Per
adottare comportamenti più idonei alla situazione occorrono però prontezza
di riflessi, capacità di raziocinio anche in situazioni di stress (sangue
freddo), abitudine all’azione specifica, conoscenza del mezzo… in una
parola: preparazione.
Il
‘panic stop’ esiste anche per il pilotaggio dei mezzi per il v.d.s. ed in
particolare per il parapendio. Sebbene non esista alcuna ricerca ufficiale e
documentata in materia, questo è un dato di fatto.
Molti piloti, anche ben preparati, che si siano trovati in situazioni di
configurazioni di volo ingestibili, spesso hanno cercato in tutti i modi di
riprendere il volo lineare con una serie di comandi correttivi alla vela,
senza mai pensare di ricorrere al paracadute di soccorso. Per alcuni la
situazione si è risolta fortunatamente con la ripresa del volo lineare o
fortunosi atterraggi “in pianta”, per altri non è andata altrettanto bene.
COME
MAI SUCCEDE QUESTO?
Per
un osservatore esterno, com’è capitato a molti che abbiano assistito a
questi eventi, è facile stabilire quando sia il momento di ricorrere al
paracadute di soccorso. Assistendo ad una cascata di configurazioni, spesso
abbiamo pensato ‘emergenza!’ Peccato che il pilota non fosse lì ad
ascoltarci e se anche ci avesse sentito, resta sempre il dubbio se avrebbe
seguito il consiglio.
Per
quanto, stando seduti in poltrona a leggere queste righe, la cosa possa
sembrare assurda, il ricorso al paracadute di soccorso è spesso una delle
ultime azioni che passano per la mente ad un pilota, che si viene a trovare
in una situazione d’emergenza a suo giudizio ancora recuperabile. Prima di
tutto bisogna stabilire che cosa s’intenda per “recuperabile”. Si tratta di
un criterio più soggettivo che oggettivo, probabilmente la discriminante di
base potrebbe essere una vela, che, nonostante tutto, fosse ancora
posizionata grossomodo sopra il pilota, senza che questo sia andato in twist
o in rotazione centrifugata. Bisogna in primo luogo osservare che il pilota
di parapendio, per la natura stessa del mezzo con il quale vola, è in un
certo qual modo abituato ad affrontare situazioni nelle quali il suo mezzo
non sta più volando e che fanno parte proprio del comportamento in volo di
questo genere di ala. Per questa ragione, indotto dall’abitudine e
dall’addestramento, un pilota medio adotterebbe il comportamento più idoneo
(a suo giudizio), per rimettere il suo parapendio in volo livellato, cioè:
una sequenza di comandi alla vela in accordo con i segnali che arrivano da
lei, comandi che potrebbero essere quelli corretti ma anche quelli
sbagliati. Questo comportamento, nel volo con il parapendio, è l’equivalente
del ‘panic stop’. Se proprio vogliamo incolpare qualcuno o qualcosa, diciamo
che questo comportamento è indotto o meglio ancora: è un imprinting, che ci
viene dal pilotaggio stesso del nostro mezzo.
Facciamo degli esempi: diversi mezzi volanti, come alianti e aerei a
motore, in una certa misura perfino elicotteri e forse anche i deltaplani,
anche in situazioni anomale, permettono ancora al loro pilota una certa
libertà di movimento fisico e sono ancora pressoché pilotabili con una sola
mano ed i due piedi.
Questo significa che anche in situazioni giudicate irrecuperabili dal
pilota, egli ha a disposizione almeno ancora un arto per effettuare altre
operazioni, a suo giudizio idonee per uscire dall’emergenza, ad esempio
utilizzare diversamente i comandi aerodinamici, utilizzarne altri, dare o
togliere motore, eventualmente azionare il soccorso.
Il
parapendio è invece l’unico mezzo pilotabile in modo efficace esclusivamente
con entrambe le mani e non meno importante: lo spostamento del corpo, ed il
gesto di abbandonare uno dei comandi, per un pilota addestrato, è innaturale
anche in condizioni d’aria calma.
Come conseguenza di questo, ogni pilota che si trovasse in condizioni di
turbolenza, si attaccherebbe ai comandi curando di bilanciare accuratamente
le perdite di pressione e le pendolate della calotta con precisi movimenti
dei freni e del corpo.
Per
centinaia d’ore di volo, un pilota medio si è addestrato a controllare la
propria vela con le due mani e con gli spostamenti del peso e più la
situazione dovesse divenire critica, più il pilota “si attaccherebbe ai
freni”.
Partendo dalla chiusura asimmetrica, che sappiamo essere la causa principale
d’incidenti, è facile comprendere come un pilota che si trovasse ad
affrontare una conseguente cascata di configurazioni, ben difficilmente si
azzarderebbe ad abbandonare un comando per andare ad afferrare la manetta
del paracadute di soccorso, perché abbandonare uno dei freni significherebbe
lasciare ancora di più senza controllo una vela imbizzarrita, agendo in
maniera assolutamente anomala rispetto a tutto quanto ha fatto durante
l’evoluzione della sua carriera di pilota .
La storia del
volo è piena d’incidenti causati da cascate di configurazioni mantenute fino
all’impatto con il terreno, come anche il mondo del volo è pieno di piloti
che, pur avendone tutto il tempo e la quota, non hanno lanciato l’emergenza,
andando infine ad impattare il suolo, con un comportamento analogo a quello
di un autista che fa affidamento esclusivamente al pedale del freno per
evitare un incidente, il ‘panic stop’ appunto.
E’
difficile comprendere che cosa passi per la mente di un pilota in questi
momenti, anni fa, un pilota, a seguito di una cascata di configurazioni
innescatasi a circa 250 metri da terra, arrivò al suolo con una vela biposto
senza lanciare l’emergenza. Lui dichiarò di essere sempre stato
perfettamente lucido e che in quei momenti i suoi ragionamenti furono:
La
classe d’omologazione di questa vela mi garantisce che dovrà riprendere il
volo lineare in modo autonomo.
Dopo il secondo stallo e nuovo innesco di un negativo, colto di sorpresa,
analizzò l’opportunità di lanciare con uno schema di ragionamento simile a
questo:
-
Sono basso,
-
Devo rilasciare un comando per lanciare l’emergenza
-
Ho letto che le emergenze in biposto sono pericolose.
Dopo di ciò, mise in pratica altre manovre e riuscì ad atterrare in
pendolata. Il pilota si ruppe sei costole, l’altro pilota che faceva da
passeggero si fratturò una vertebra e possiamo dire con certezza che andò
ancora bene.
In
queste pagine troverete una serie di testimonianze di piloti che sono
passati per l’esperienza dell’emergenza dove spiegano cosa è passato loro
per la mente in quegli istanti.
Nota: in alcuni casi i piloti hanno chiesto di usare uno pseudonimo.
Spiegami il tuo incidente.
Gianbattista:
“Ero in termica portante a bassa quota sopra un ampio crinale erboso, in
quel momento salivo vento in coda fronte al pendio, all’improvviso la vela
subì una fortissima asimmetrica, appena contrastai, percepii che il freno
della semiala aperta stava collassando a causa di uno stallo asimmetrico
(quella vela era fuori assetto e non lo sapevo), rilasciai immediatamente e
la vela effettuò una violenta ripresa in avanti (con le bocche fronte al
pendio), in quel momento mi dissi: ‘Ci sono…’, invece, riuscii a controllare
la pendolata e ripresi il volo lineare, eseguii un veloce 180° verso valle e
me la diedi a gambe verso l’atterraggio.
Hai
mai pensato di lanciare l’emergenza?
Non
ho assolutamente considerato l’idea di lanciare, perché è successo tutto
molto repentinamente e l’unica cosa che mi sembrava opportuna era quella di
controllare la vela, poi, ero molto basso e non so se ne avrei avuto il
tempo, comunque, non ci ho pensato nemmeno nei minuti successivi, per me
l’emergenza non esisteva, c’eravamo solo io, i freni e la vela, mi sono reso
conto del pendio solamente quando me lo sono visto innanzi.
Penso, però, che situazioni del genere, a bassa quota, colgano assolutamente
impreparati, annullando il tempo per razionalizzare e per decidere se
lanciare. Probabilmente, solamente un campione che volasse una vela molto
spinta, in questo caso ricorrerebbe immediatamente al paracadute di
soccorso. A me è andata bene e non so se mi sarei salvato ugualmente
lanciando, considerata la quota, la situazione e tutto il tempo necessario
per: rilasciare un comando, andare a cercare la maniglia, estrarre, lanciare
e sperare…
Come è cambiato il tuo modo di volare da allora?
Passato il trauma, da allora sto molto attento alle termiche portanti
risalite ‘fronte al pendio’, anche se meno efficace, è molto più sicuro
salirle a granchio, piuttosto che con vento in coda; poi ho montato un
Aircone.
Spiegami il tuo incidente.
Mirko: Quel
giorno, era il primo gennaio 2002, venivo da una settimana d’influenza, dai
postumi del veglione di capodanno ed ero sotto l’effetto della tachipirina.
In volo mi ero accorto di non essere tranquillo ma soprattutto di non essere
lucido. Non sentendomi a mio agio decisi di uscire sull’atterraggio e di
provare a fare un paio di stalli, così... tanto per ‘svegliarmi’. Era una
manovra abituale per me, che reputavo semplice. Così, dando per scontata una
cosa tecnicamente semplice, (ma se fatta con la testa sbagliata ogni cosa
diventa complicata), mi cacciai nei guai. Subito dopo lo stallo, nella fase
di rilascio, la vela partì in rotazione, mi era già successo ma in quel
momento non ero nelle condizioni per reagire in modo appropriato e mi trovai
con cinque giri di twist ed i freni bloccati in una posizione al limite
dello stallo paracadutale, in un prestallo simile a quella della manovra ‘elicottero’,
per cui, ogni movimento che facevo provocava ondeggiamenti, pendolate e giri
ulteriori. La prima cosa che feci fu di guardare in basso per constatare che
avevo ancora un bel 700 metri. A quel punto stabilii di lavorare per
togliermi i giri di twist. Mi trovavo sopra la terraferma ma con un forte
vento da ovest che mi scarrocciava verso il lago. Fino a quel momento non
avevo assolutamente considerato di lanciare l’emergenza, ero convito di
potermi raddrizzare, ero abituato e lo avevo già fatto più volte, ma la
grossa differenza era che non ero lucido e continuavo a fare errori. Nel
frattempo, mentre cercavo di sbrogliare i twist, la vela perdeva quota
scarrocciando verso il lago. Quando mi trovai a 3-400 metri da terra e
pericolosamente vicino all’acqua, considerai l’opportunità di lanciare, ma a
quel punto mi resi conto che se lo avessi fatto, con lo scarroccio sarei
finito in acqua. Il primo di gennaio e con il lago ghiacciato sarebbe stata
una cosa potenzialmente mortale; decisi allora che avrei fatto di tutto fino
all’ultimo per recuperare la vela. Riuscii a sbrogliare l’ultimo twist
quando ero a circa 70 metri da terra, avevo ancora mezzo giro, ma decisi di
tenere quella posizione e di impostare un ‘atterraggio alla francese’, ma
sentivo che la vela non era a posto e temendo una pericolosa pendolata
decisi di sparare l’aircone a circa 50 metri. “Averlo, non usarlo e
sbattere, sarebbe troppo stupido”, pensai. I soldi della revisione che feci
dopo furono ben spesi, anche se riuscii ad atterrare perfettamente in twist
e con il fascio dell’emergenza dispiegato.
Che cosa hai
imparato da quell’esperienza?
Ci misi un bel
tre mesi a riprendermi, e per farlo completamente dovetti fare un altro
stallo che eseguii perfettamente; ma la grossa differenza è che quel giorno
ero perfettamente lucido ed in forma. Quello che ho compreso è che uno dei
più grossi errori che puoi fare nel mondo del volo è di andare per aria
quando non sei pronto fisicamente o psicologicamente, ho visto molto spesso
vele che facevano di tutto per riprendere a volare e piloti che con i
comandi facevano di tutto per non lasciarle volare, per volare devi essere
sempre al 100%, anche per eseguire manovre sulle quali sei allenato e che a
tuo parere sono facili, devi sempre essere al 100%. Forse il problema sta
nel saper capire quando non sei in forma, ma devo dire che un campanellino
d’allarme che ti suona dentro c’è sempre, quella volta non l’ho ascoltato,
molte volte dopo l’ho fatto.
IN
CONCLUSIONE : IL PARERE DELL’ESPERTO ... E PICCOLO CONSIGLIO
Tutti sappiamo
che la sicurezza nelle pratiche umane evolute è in funzione delle cosiddette
PROCEDURE : automatismi tecnici che prevengono o correggono eventuali
“errori umani”.
La procedura
by-passa l’intervento (nel nostro caso) del pilota.
In assenza di
procedure automatiche il pilota con la sua DECISIONE diventa PARTE DELLA
PROCEDURA.
Nella sequenza
decisionale del pilota ISTRUITO (quello che SA COSA BISOGNA FARE E QUANDO
FARLA E MAGARI IN UN SIV HA GIA’ PROVATO AD APRIRE L’EMERGENZA) (come ben
capite quello del PILOTA NON ISTRUITO E’ UN ALTRO FILM), c’è un “inquilino”
indesiderato che si chiama ANSIA che ha un impatto decisivo, univoco
sulla sequenza della procedura nel senso che LA RALLENTA. (Nel caso
di Mirko il rallentamento è invece da attribuire a cause ESOGENE:
convalescenza e farmaci)
Il “panic
stop” fa parte del film “pre-procedurale” o “a-procedurale” del pilota NON
ISTRUITO : è una reazione “istintiva”, “animale” che si attiva quando
1.
uno le procedure non le ha,
2.
oppure quando, pur avendole, sono
“saltate”.
Nel pilota
ISTRUITO le procedure saltano solo se è avvenuto un rallentamento ENDOGENO
INDOTTO DALL’ANSIA, ovvero ESOGENO (farmaci, patologie, critiche condizioni
psicofisiche)
Capite bene
che 2 sono le possibilità per ovviare al “salto” delle procedure :
1.
RENDERLE AUTOMATICHE : pensate ad
un dispositivo che “legge” i ¾ dei cassoni chiusi per più di 6 secondi che
azioni direttamente l’aircone
2.
IN ATTESA DELL’INVENZIONE DI
QUESTA DIAVOLERIA (che forse non vedrà mai la luce) L’UNICA POSSIBILITA’ DI
INTERVENTO E’ STUDIARE IL LIVELLO D’ANSIA DEL PILOTA.
Personalmente
sto mettendo a punto il primo studio al mondo di psicologia del volo.
La misurazione
del livello d’ansia caratteristico del singolo pilota è eseguito attraverso
una batteria di test.
Lo studio è
ancora in fase iniziale.
Per validare i
test e per passare alle successive fasi dello studio ho bisogno di almeno
500 CAVIE,
Al momento ne
ho trovate solo 120...
Se vuoi
partecipare a questa opera meritoria, puoi accedere al mio sito :
www.azzurroticino.it e seguire le istruzioni.
Nella pagina
dei risultati puoi capire come varia l’ansia al variare della “classe di
competenza tecnica”
-
I “TOP PILOT” HANNO UN LIVELLO
MEDIO DI ANSIA PARI A “2”
-
GLI “ADDIO ALLE ARMI” HANNO UN
LIVELLO MEDIO DI ANSIA PARI A “8,6”
Siccome il
“rallentamento” da ansia si innesca a livello “5” e l’ “immobilità” si
innesca al livello “10” il pilota “conoscendosi” può essere preavvertito e
l’ “organizzazione” conoscendo i piloti può organizzare un qualcosa di
preventivo ... O NO?
PARAPENDIO ED ELICOTTERO : CONVIVENZA IMPOSSIBILE
3) E PER QUANTO
RIGUARDA LA NATURA E L’ORIGINE
DELLE TURBOLENZE :
6)
Turbolenza
Il moto di un fluido è detto stazionario se il campo delle sue velocità non
varia nel tempo; nel caso contrario il moto è detto non stazionario o
turbolento. In presenza di turbolenza si registra, quindi, una variazione della
direzione e dell’intensità del vento che rendono vorticoso e pulsante il moto
dell’aria che si sovrappone al movimento medio dell’aria stessa.
La turbolenza può essere originata da:
• Cause termiche;
• Cause dinamiche.
Se il suolo fosse liscio e l’atmosfera stabile il vento scorrerebbe in strati
paralleli con moto laminare; si potrebbe avere solo qualche irregolarità del
moto dovuta all’aumento di velocità con la quota man mano che ci si allontana
dal suolo che, con il suo attrito, tende a frenare l’aria che vi scorre sopra.
Nella realtà la superficie terrestre presenta grosse variazioni di attrito
dipendenti dalla zona attraversata; si pensi alla massa d’aria proveniente dal
mare che entrata sul continente incontra alberi, case, rilievi isolati, catene
montuose ecc. Nelle zone di transizione si ha la formazione di vortici con
relativo moto turbolento di origine dinamica.
Di particolare interesse è il caso di aria stabile che scorrendo orizzontalmente
incontra un rilievo isolato oppure una catena montuosa. Nel primo caso l’aria
fluirà intorno al rilievo aggirandolo e dando luogo, nella zona sottovento, a
vortici con asse verticale. Nel secondo caso l’aria è costretta a scavalcare la
catena montuosa. Nella zona sottovento si avrà turbolenza in prossimità dei
vortici provocati del moto dell’aria la quale, per tornare alla quota di
equilibrio, descrive una sinusoide che si va gradualmente smorzando man mano che
ci si allontana dalla catena montuosa. Queste ondulazioni costituiscono le onde
orografiche (MTW). La loro presenza è segnalata da nubi lenticolari posizionate
in prossimità della cima del rilievo e da nubi dette a rotore, localizzate nella
zona di massima turbolenza. La distanza fino alla quale sono presenti le onde
orografiche è proporzionale all’altezza del rilievo ed alla velocità con la
quale l’aria impatta contro la catena montuosa.
La turbolenza di origine termica si origina in presenza di aria instabile. Se vi
è anche un adeguato contenuto di vapore si svilupperanno nubi cumuliformi, in
particolare cumuli e cumulonembi, all’interno delle quali vi sarà turbolenza
generalmente di forte intensità. In assenza di vapore, come nelle zone
desertiche, la turbolenza può essere presente in aria chiara.
A secondo dell’intensità la turbolenza viene classificata in:
• Leggera (light);
• Moderata (Moderate);
• Forte (Severe).
A seconda della particolare situazione meteorologica a cui è legata è stata
classificata in:
• Turbolenza da temporale (Storm Turbulence);
• Gradiente del vento (Wind shear);
• Turbolenza in aria chiara (Clear Air Turbulence) C.A.T.;
• Turbolenza di scia.
(…)
La turbolenza di scia è provocata dall'aeromobile sia per effetto degli
scarichi dei getti che per effetto dei vortici che si generano in conseguenza
del sostentamento dell'aeromobile stesso. L'aeromobile genera una coppia di
vortici controrotanti che si originano alle estremità alari per gli aerei,
mentre per il elicotteri hanno origine dal bordo dei rotori. Le dimensioni dei
vortici sono circa uguali all'allungamento altre dell'aereo e se trattasi di
elicottero sono circa uguali al diametro del rotore. L'intensità dei vortici
aumenta con il peso dell'aeromobile e col diminuire della velocità di volo . La
turbolenza di scia viene prodotta soprattutto nelle fasi di decollo e di
atterraggio, cioè quando le ali dell'aereo ed i rotori dell'elicottero producono
portanza, e termina in atterraggio quando l'aereo viene a contatto con la pista.
In volo la scia vorticosa si sposta verso la superficie terrestre con un
rateo di circa 400-500 ft/min e si stabilizza al di sotto dell'aereo da cui ha
avuto origine ad una distanza di circa
900 ft.
Quando l'aeromobile si avvicina al suolo, ad una distanza di 200 ft, la
propagazione verso il basso dei vortici è ostacolata dalla presenza del suolo
stesso e quindi essi tendono a deviare lateralmente, allontanandosi l'uno
dall'altro con una velocità di circa 5 Kts.
Se contemporaneamente sulla pista è presente un vento al traverso si avrà un
incremento della velocità di spostamento laterale del vortice sottovento, ed una
riduzione di quella relativa al vortice sopravento, di una quantità pari a
quella della velocità del vento stesso. Un aereo che si trovi a volare nella
scia di un altro aereo subisce un forte rollio indotto provocato dal vortice di
scia. Tenendo presente che la scia dipende dall'apertura alare, allora diventa
molto difficile, per un aereo di apertura alare inferiore a quella che ha
generato il vortice, compensando il rollio indotto perché i suoi alettoni sono
compresi nel campo dì influenza del flusso rotatorio associato al vortice.
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